
È IN NOI
CHE I PAESAGGI
HANNO PAESAGGIO
Souvenir d'Amérique
SOUVENIR D'AMÉRIQUE
DAL 30 APRILE 2016
AL 17 LUGLIO 2016
MUSAS
via della Costa, 26
SANTARCANGELO DI ROMAGNA
opere di:
Veronica Azzinari
Carloni & Franceschetti
Federico Guerri
Luca Piovaccari
Pomelo
Gloria Salvatori
Giorgia Severi
Verter Turroni
IN RETE CON
inaugurazione della mostra collettiva
SABATO 30 APRILE 2016 / ORE 17.30
progetto espositivo in rete con la 2ª edizione della
BIENNALE DEL DISEGNO di Rimini
“È in noi che i paesaggi hanno paesaggio”. Sulla scia di questa intuizione del poeta Fernando Pessoa, il secondo progetto espositivo di Cristallino si configura come un viaggio nella rappresentazione dello spazio, tra geografia e biografia, reticoli naturali e traiettorie umane.
La mostra, che nasce in collaborazione con la Biennale del Disegno di Rimini, è intesa a restituire non tanto un’immagine stabile, analitica, della nostra visione del mondo, quanto la sua proiezione, il suo corpo disseminato, la sua capacità di scindersi e amplificarsi in una miriade di prospettive, di rizomi – il paesaggio, insomma, come un testo senza centro, del quale è impossibile stabilire con certezza le coordinate.
Al pari dei documenti cartografici cinque/seicenteschi, dove l’ignoranza dei contorni matematici del globo terrestre spingeva i geografi all’azzardo e alla congettura, e nei quali l’inesattezza della riproduzione finiva per far vibrare di riflesso la sostanza stessa della realtà, ciò che ci preme consegnare con questa mostra è un’immagine del mondo ancora turbata dal possibile – una infrazione dei confini conosciuti, una totale avventura speculativa.
Lo stesso titolo, Souvenir d’Amérique, allude proprio a questo “desiderio di paesaggio”, di orizzonte, di una “terra promessa”, reale o immaginaria, concreta o ipotetica che sia. E le opere in mostra accentuano e verticalizzano questa idea di uno spazio interstiziale situato fra soggetto e oggetto – la loro poetica oscilla fra migrazione e stabilità, mondo esterno e recinto interiore, secondo una disciplina di linee e sentieri che può, talvolta, sconfinare nell’arabesco, in una proliferazione di segni scissa da qualsiasi referente oggettivo: libera, articolata, germinativa – in grado di differenziarsi indefinitamente, pericolosamente in bilico tra il deserto bianco di un supporto e l’intrico generato dalla vegetazione espressiva.
In un’epoca in cui la riproduzione del reale si è sostituita a esso, in cui le mappature statistiche, mediatiche, genetiche sono sempre più coercitive, queste opere sembrano reclamare una via di fuga: alludono a un senso senza esaurirlo, ripristinano una possibilità inventiva proprio in forza della loro frammentarietà, mostrano come l’intellezione del mondo possa ancora darsi per via evocativa, per lampi ed evanescenze – per un preciso, segnico e insieme musicale, tremore.
Il paesaggio non è soltanto uno spazio, un luogo neutro posto di fronte al nostro sguardo. Parlare di paesaggio significa parlare di una dimensione che ha a che fare col tempo, col desiderio, con l’utopia. Forse il termine più appropriato per significare questa coincidenza è la parola greca skené, vocabolo che nella sua accezione primaria, etimologica, indicava quel luogo deputato ad accogliere e a farsi tramite del dramma: delle nostre proiezioni sentimentali e cognitive, dei nostri affanni e delle nostre speranze, delle nostre storie e dei nostri atti, recando una perfetta fusione fra la cornice e il gesto che in essa affonda.
Si tratta, ed è questo il comune denominatore della ricerca di questi artisti, di rinvenire all’interno del paesaggio una forma destinica, esattamente come accade in uno splendido racconto di Jorge Luis Borges: “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.